Il deserto dei tartari
Dino Buzzati
Dietro quel fiume — dirà la gente — ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo. Fino a che Drogo rimarrà completamente solo e all'orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo. Oramai sarà stanco, le case lungo la via avranno quasi tutte le finestre chiuse e le rare persone visibili gli risponderanno con un gesto sconsolato: il buono era indietro, molto indietro e lui ci è passato davanti senza sapere.
Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un'occhiata indietro. "Ferma, ferma!" si vorrebbe gridare, ma si capisce ch'è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento e non si ferma mai. Di giorno in giorno Drogo sentiva aumentare questa misteriosa rovina, e invano tentava di trattenerla. Nella vita uniforme della Fortezza gli mancavano punti di riferimento e le ore gli sfuggivano di sotto prima che lui riuscisse a contarle. C'era poi la speranza segreta per cui Drogo sperperava la migliore parte della vita. Per alimentarla sacrificava leggermente mesi su mesi, e mai bastava. L'inverno, il lunghissimo inverno della Fortezza, non fu che una specie di acconto. Terminato l'inverno, Drogo ancora aspettava.
Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l'amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita.